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The Sinner 4: la recensione dell’ultima stagione. Su Netflix

The Sinner è una serie antologica disponibile in streaming su Netflix con quattro stagioni.

La quarta e ultima, con otto episodi, è disponibile dal 15 dicembre 2022.

La serie  ha ricevuto 2 nomination alla 75ª edizione dei Golden Globe Awards: una per la Miglior Miniserie o Movie per la TV e una per la miglior attrice in una mini-serie o movie per la televisione per Jessica Biel, la quale ha anche ricevuto una nomination agli Emmy Awards nella stessa categoria.

La Trama

Prima stagione. Cora Tannetti, moglie e madre dalla vita apparentemente serena, un giorno, colta da un impeto di rabbia, uccide uno sconosciuto, senza motivo e con estrema ferocia. Dopo la confessione di Cora, la mancanza di un movente porta il detective Harry Ambrose a indagare su cosa sia successo nella psiche della giovane donna.

Seconda stagione. Ambrose torna nella sua città natale dopo che Julian Walker, un ragazzo di 13 anni ha confessato di aver avvelenato i suoi genitori e apprende i segreti che gli abitanti della città sono determinati a far rimanere sepolti.

Terza stagione. Ambrose inizia advert indagare su un gravissimo incidente accaduto in una cittadina non distante da New York e su l’unico sopravvissuto Jamie Burns. Durante le indagini, però, riporterà alla luce un mistero sepolto da anni.

Quarta stagione. Ambrose, advert un anno dagli accadimenti della terza stagione, è in pensione, e va in vacanza su un’isoletta di pescatori. Ma anche lì si imbatterà in un mistero: una ragazza che si getta giù da una scogliera, di notte, ha dietro inquietanti misteri sull’esistenza di una setta.

La recensione

C’è un altro detective in television: è Harry Ambrose, poliziotto tormentato che troppo spesso rivede sé stesso nei killer su cui indaga.

Tratto dal romanzo di Petra Hammesfahr e prodotto da Jessica Biel (che è anche attrice protagonista della prima stagione delle quattro prodotte), The Sinner è un serial arrivato al suo quarto e probabilmente ultimo anno con un accoglienza entusiastica e in crescendo da parte di critica e pubblico: certamente, è un ottimo esempio di scrittura senza sbavature per un racconto di detection che punta sull’analisi psichiatrica dell’assassino, oltretutto in maniera totalmente empatica e libera da ogni pregiudizio. L’approccio al delitto, apologetico e analitico, è senza dubbio figlio della cultura europea da cui deriva l’autrice del romanzo, ed è lontanissimo da tanta narrativa di genere che ingolfa la serialità televisiva costruita su clichè e coazioni a ripetere.

The Sinner è invece, fin dalla sigla che riprende le macchie di Rorschach, un’indagine personale ed intima prima che poliziesca in perenne bilico tra la normalità e la follia, e anzi prima di tutto un’indagine per capire se questo limite esista e se abbiano un senso le due definizioni.

La prima stagione parte da un fatto che sembra non avere nessuna ombra (l’omicidio di un ragazzo, in pieno giorno, in spiaggia, per opera di una casalinga disturbata) e delinea le coordinate entro cui la serie si muoverà: ovvero un omicidio certo il cui colpevole però entra subito in sintonia con il detective Ambrose, appunto, che indagherà fino a lacerare il velo di ovvietà per entrare sottopelle e portare alla luce risvolti inediti e particolari inquietanti, mostrando che niente è come appare.

La differenza tra il conscio e l’inconscio è il campo da gioco di The Sinner: un gioco di specchi tra vittima e carnefice, un continuo ribaltamento di ruoli, ma soprattutto un’indagine specifica sul concetto del peccato.

Se un gesto violento e irrazionale è frutto di abusi psicologici e fisici, può essere considerato un crimine tout courtroom? La risposta non è semplice e neanche facile, così come né semplice né facile è la serie prodotta dalla Biel, che nel suo ruolo nella prima stagione ricalca i suoi personaggi visti su grande schermo ma dà prova di enorme sensibilità restituendo le fragilità, le angolature, gli anfratti e le ombre di una personalità disturbata e violentata dentro e fuori. The Sinner parte dalla triangolazione di un’umanità sofferente e dolorosa, rendendo esplicito il malessere esistenziale umano che viene metaforizzato dai personaggi in scena.

Dal punto di vista narrativo, poi, la confezione è impeccabile: l’indagine sembra partire scontata e invece diventa lentamente un gioco di scatole cinesi, nelle quali lo spettatore rimane ineluttabilmente incastrato e intrappolato.

Se allora la prima stagione ha fulminato tutti, la seconda ha confermato le aspettative di chi ne period rimasto entusiasta. Confermando la sua natura semi antologica: perché se da una parte ogni stagione corrisponde advert un caso per Harry Ambrose, la sua vita privata è la linea verticale che le lega tutte.

The Sinner allora inventa un universo condiviso e nuovi personaggi, e grazie all’inventiva dello showrunner Derek Simonds si trasforma nel sabotaggio di un intero genere, perché rivoluziona la caccia al colpevole: fin dall’incipit conosciamo il volto dell’assassino, ma a far rimanere invischiati nella narrazione è il perché si sia arrivati all’omicidio.

La seconda stagione, con il piccolo Elisha Henig che sembra uccidere le due persone che sembrano i suoi genitori, continua a costruire atmosfere inquietanti e morbose che spostano l’interno all’esterno: la mente umana è una palude dove regnano paure, colpe e traumi che rendono impossibile la distinzione netta tra colpa e innocenza. Allo stesso modo la realtà diventa un posto dove è impossibile distinguere la vittima dal carnefice, dove chi uccide non è (quasi) mai colpevole ma a sua volta vittima di un altro abuso.

Invoice Pullman, uno dei peggiori attori residuati dagli ipertrofici anni Novanta, diventa qui un personaggio scivoloso e pieno di contraddizioni splendidamente umane: con il suo sguardo perennemente traverso e il dolore trattenuto (che sfogherà solo al termine della terza stagione, nell’ultima emozionante sequenza dell’ultima puntata) si fa catalizzatore dei drammi e dei dolori dei suoi indagati.

La terza stagione sembra girare su sé stessa nel momento in cui la componente crime viene messa da parte per dare (troppo?) spazio a quella filosofica: ma a conti fatti, la sua indefinitezza, le sue slabbrature, le sue sfumature raccontano meglio della storia stessa la psiche tortuosa del protagonista e la sua difficoltà di vivere.

La quarta stagione chiude il cerchio: mettendo in scena, sotto i riflettori, l’inadeguatezza di vivere di Ambrose e le sue debolezze, che ancora una volta si specchiano con il Male intorno a lui. Un suicidio lo mette infatti difronte al buco nero che ha dentro e che risucchia tutto: il detective si renderà conto di sentirsi vivo solo quando può combattere un male esterno che possa essere la metafora di quello suo chiuso dentro.

Pullman ci mette del suo, e negli ultimi otto episodi mette a nudo la fragilità di uno dei migliori personaggi del decennio.

Da Cora Tannetti -la Biel della prima stagione- e le sue cicatrici sulle braccia, la sua memoria confusa e la sua inquietante e misteriosa storia di segregazione; a Julian Walker (Henig) e la soffocante ed enigmatica comune dove ha passato i suoi primi anni di vita adorando un sasso guidati dal Faro; fino a Jamie Burns, che ha i lineamenti spigolosi di Matt Bomer, i suoi occhi terrorizzati e il suo lacerante bisogno di tempo da un passato che torna a tormentarlo; sono tutti personaggi in cui Ambrose/Pullman si specchia e si rivede, osservando la sua infanzia, la follia patologica che lo circondava e il dolore che tiene stretto in fondo al cuore e a cui non sa dare sfogo.

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