• contact@blosguns.com
  • 680 E 47th St, California(CA), 90011

‘Hustle’ la recensione del nuovo movie di Adam Sandler

Prodotto e distribuito sulla piattaforma Netflix Hustle di Jeremiah Zagar è soprattutto  il nuovo movie di Adam Sandler che ancora una volta conferma le sue doti di attore drammatico.

Più volte abbiamo sentito raccontare dai diretti interessati come la capacità di far ridere sia la risultante di una reazione che viene da lontano, il più delle volte collegata alla necessità di prendersi gioco di un’esperienza – anche personale – beffarda e drammatica. Questo per dire come non sia più una sorpresa scoprire che dietro la maschera comica di molte celebrità della risata si nascondano dolori e tormenti esorcizzati dal graffiante umorismo dei loro spettacoli. 

Hustle: doppia natura

Per alcune di loro questa seconda natura è destinata a rivelare se stessa lontano dal palcoscenico, pronta a esplodere negli episodi più tristi e controversi dei singoli percorsi esistenziali (si pensi alla controversa esperienza di Lenny Bruce, la cui parabola umana, costellata di contraddizioni e dipendenze rimase avulsa dalla provocante spavalderia dimostrata in veste di humorist), per altre, invece, diventa parte integrante del proprio lavoro attraverso lo sguardo di autori (grandi) capaci di non farsi irretire dalla pigrizia dello sguardo, e per questo in grado di creare different in carriere attoriali a senso unico. Successe a Jim Carrey con Peter Weir nel celeberrimo The Truman Present, succede ancora oggi a Adam Sandler, il quale dopo Ubriaco D’amore di Paul Thomas Anderson e Diamanti Grezzi dei fratelli Safdie continua a prendersi delle pause dal ruolo di mattatore della commedia americana per dedicarsi a storie più intime e personali dove il favolesco dei grandi titoli mainstream lascia il posto a produzioni indipendenti in cui la finzione si mescola con il realismo di un proscenio scarno ed essenziale.

Da Waterboy advert Hustle

A questa categoria di titoli appartiene Hustle, in cui nella parte di uno scout di basket in cerca di rilancio, Sandler si cimenta ancora una volta nel filone sportivo dopo averlo praticato in Waterboy, lungometraggio che più di altri lo ha lanciato nell’olimpo delle grandi star hollywoodiane con un ruolo simile a quello interpretato per il movie di Jeremiah Zagar. Come Bobby Boucher, il portatore d’acqua della squadra di soccer universitario destinato a diventare un campione anche lo Stanley Sugarman di Hustle è una figura che in qualche modo si ribella alla marginalità del proprio ruolo per indossare i panni del protagonista non dopo aver sofferto le pene dell’inferno. Nel farlo Sandler si produce in una delle determine più classiche del cinema americano, declinando da par suo una tipologia di drop out, che nella faccia e nel corpo dell’attore risulta prosciugata dai cliché più scontati a favore di un’umanità straripante, messa a nudo da una continua sottrazione del gesto espressivo di cui Sandler è maestro.

Rivincita sportiva ed esistenziale

Così non è invece per il contesto del movie che ripropone schemi e personaggi ispirati ai modelli più famosi della categoria, quelli che da Rocky in poi hanno scandito le rivincite sportive ed esistenziali, con il percorso di risalita (in questo caso non solo di Stanley ma anche del talento da lui allenato) come sempre contrastato dal resto del sistema. Citato letteralmente nelle braccia alzate in segno di vittoria con cui Bo Cruz (Juan Hernangómez, cestista degli Utah Jazz, qui al suo esordio come attore) suggella l’arrivo in cima alla scalinata con cui si conclude l’allenamento, del movie di John G. Avildsen Hustle mantiene non solo la pregnanza di un’estetica volta a riprodurre una realtà documentaria, ma sposta ancora più avanti l’obliquità dello sguardo: non solo perché come lo Stallone Italiano anche Bo Cruz appartiene a una comunità figlia della migrazione. Hustle, infatti, invece di narrare la storia dal centro del ring sceglie di mantenersene fuori, facendola guardare allo spettatore  dai bordi del campo attraverso gli occhi del suo antieroe.

Regia invisibile

Rispetto a Quando eravamo fratelli, dove il clima evocativo trovava corrispondenza in un regia organizzata su più livelli di percezione e con una maglia narrativa meno stringente, qui Jeremiah Zangar sceglie una messinscena invisibile in cui le immagini sono messe al servizio della linearità del racconto, corrispondendo in questo alla ferrea logica di un personaggio, quello interpretato da Sandler, in cui pensiero e azione iniziano e finiscono nell’ossessione del risultato finale, quello di mettere ordine allo scombinato talento del suo pupillo per farne un  perfetto giocatore da NBA.

Se i personaggi principali sono ben rappresentati, grazie anche all’empatia degli interpreti (non solo Sandler ma anche Juan Hernangómez), a nuocere è la presenza di un contesto troppo programmatico che finisce per semplificare asperità psicologiche e svolte narrative. Hustle si lascia guardare, ma non riesce a essere qualcosa in più di un semplice intrattenimento.

Leave a Reply